martedì 15 aprile 2008

La Lega nord ha fatto il botto; Hanno preso i fucili?!


Il proletariato leghista celebrerà il 2008 come l'anno in cui ha strappato definitivamente alla sinistra italiana la rappresentanza del mondo in cui essa nacque un secolo e mezzo fa: il Nord industriale, le sue pianure e le sue valli. Bossi è riuscito a conservare, pur nella malattia e lontano dai media, l'aura mitica del fondatore di un popolo.

Nessuno poteva sostituirlo in questo ruolo: l'invenzione di una comunità dalle radici artificiali - una padanità inesistente, sia nella versione celtica che nel revival crociato - ma straordinaria per adesione a bisogni e paure degli umili e degli impauriti.

La Lega, raddoppiando i suoi voti in Lombardia e nel Veneto, è l'unico partito italiano che oggi si proponga come interprete di un territorio. Un territorio celebrato nella sua preziosa unicità, più che mai bisognoso di protezione quando i tentacoli della globalizzazione lo minacciano.

Tutto il contrario di fenomeni televisivi come Ferrara o la Santanché. Ai banchetti della Lega, nei mercati rionali e nelle piazze di paese, le settimane scorse si poteva riconoscere una seconda generazione di militanti giovanissimi in camicia verde, perfino adolescenti che si presentano come guardia padana, distribuiscono volantini e lecca lecca, trovano riferimento nei sindaci promotori delle ordinanze antistranieri più che nei dirigenti "romani" come Calderoli, Castelli, Maroni, troppo assimilabili alla "Casta" da cui si sentono geneticamente estranei.

Qui in periferia il federalismo fiscale diventa concetto molto meno sofisticato: ognuno si tenga i suoi soldi. E se c'è da predicare lo sgombero dei campi rom, Radio Padania Libera non esita a impiegare un linguaggio agghiacciante: "Purtroppo è più facile derattizzare i topi che debellare gli zingari". Il partito popolare leghista difende la tradizione cattolica ma non esita a volantinare di fronte alle chiese milanesi contro l'arcivescovo Tettamanzi, se questi evoca i diritti umani di donne e bambini d'etnia maledetta. Rastrella voti arrabbiati nel quartiere di Chinatown perché, incurante della politica estera, non ha problemi diplomatici se c'è da sparare addosso alla superpotenza di Pechino.

La stessa bruciante sconfitta della Malpensa viene assimilata come alimento del rimpianto e del rancore, per ribadire il luogo comune di un Nord impoverito e taglieggiato dalla "canaglia romana", dove a cavarsela sarebbero solo i big della "tecnofinanza" (formula Tremonti) e gli immigrati. Perché ci sono molte case settentrionali in cui è il cosmopolitismo, l'idea stessa di meticciato a fare paura.

Il Partito democratico che si è presentato in Lombardia e in Veneto col volto di due capolista provenienti da Confindustria (Colaninno e Calearo) non poteva recuperare consensi nelle periferie metropolitane dove l'accrescersi delle disuguaglianze viene accettato ormai come mero problema di sicurezza, dimenticato da tempo qualunque esperimento di politiche sociali.

Al dunque, dovendosi dare rappresentanza
all'insofferenza fiscale e securitaria, l'originale marchio leghista è stato puntualmente preferito agli imitatori tardivi (di sinistra o di destra).

Bossi s'è tenuto stretto il simbolo del Carroccio, mentre Fini rinunciava a quello di An. Ha delegato alla potenza berlusconiana l'intrattenimento nei circuiti di comunicazione di massa. E ha continuato meticolosamente la cura del territorio, battendolo a tappeto con i metodi più tradizionali della militanza e della tutela clientelare. Si può star certi che la Lega tenterà ora di capitalizzare il suo clamoroso successo innanzitutto al Nord, prima e più che nel governo romano. Rivendicherà la presidenza della Regione Lombardia, intestandosi il dopo Formigoni. Punterà alle fondazioni bancarie erogatrici di sostegni finanziari nelle comunità locali, a cominciare dalla Cariplo. E se il nazionalismo padano resta poco credibile come ideologia, la dimensione rivoluzionaria del movimento verrà sempre di più indirizzata come rappresentanza del popolo autoctono contro lo straniero, a costo di cavalcare pericolosamente la xenofobia.

Giulio Tremonti è entrato in politica da tecnocrate inserito nell'accademia e nell'establishment. Con gli anni ha intuito come le sue competenze tecniche di per sé valgano ben poco in termini di forza, e allora s'è dedicato a sintonizzarle con un popolo di riferimento, come prima di lui aveva fatto Gianfranco Miglio. Ne coltiva le pulsioni reazionarie: la politica come spiritualità contrapposta al dio mercato, la retorica delle radici, i valori tradizionali contro la sinistra profanatrice del principio d'autorità. Richiami inautentici e fasulli? Che importa: se lo spirito dei tempi oscilla fra nostalgia e spavento, lo si imbraccia come i fucili di Bossi per accumularne l'energia vitale.

Con Fini ridimensionato a cadetto, da domani dietro a Berlusconi si staglia decisiva l'ombra del varesotto e del valtellinese.

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